L’estasi della visione

L’unione tra Dio e l’uomo avveniva regolarmente attraverso l’ekstasis – l’anima si libera dal corpo – e l’enthousiasmos – il dio penetra e abita lo spirito del credente. Ma i mezzi per realizzare questa unione, benché allegorizzati e spiritualizzati al massimo livello, sono a volte del genere più primitivo. Le variazioni dell’emozione religiosa possono raggiungere i punti più alti come quelli più bassi della natura umana.
Gilbert Murray, Five Stages of Greek Religion (1)

L’arte visiva è rivolta allo sguardo dell’osservatore e incentrata sullo sguardo dell’artista, sulla sua “visione” e costruzione visiva. L’arte è un modo per inviare queste visioni, queste distillazioni artistiche della vista – una vista divenuta puramente estetica, estaticamente separata dal suo oggetto, senza per questo negare la sua indiscutibile appartenenza all’occhio – all’osservatore, “impressionandone” l’occhio in modo che anche lui possa “vedere” (nel modo più puro possibile) con gioia estetica e intensa concentrazione: che apra i suoi occhi al visibile – nella realtà o nella fantasia, nel mondo circostante o nella mente – trasformando al tempo stesso la percezione visiva in arte.

Se le cose stanno così, se il punto fondamentale dell’arte visiva più seria consiste nel glorificare lo sguardo, nell’elevarlo al primo posto fra i sensi, nel celebrarne la sacra natura e il potere cognitivo – che è la ragione per cui Aristotele lo definisce il più nobile tra i sensi -, allora le opere esteticamente più pure e sublimemente astratte di Marialuisa Tadei sono quelle della serie Oculus Dei (1998-2008). Realizzate in marmo, vetro e mosaico, e perciò splendenti della luce emanata dal materiale stesso, queste opere, che possono essere lette come raffigurazioni dei capillari presenti nell’occhio, ci contemplano dall’alto, come suggerisce l’installazione nella Chiesa di Santa Maria della Croce a Ravenna del 2001. Se i dischi colorati in plexiglas dipinto di Intra me (2000) sono un’altra versione di Oculus Dei, allora il loro uso nell’installazione Divini Vultus (2000) di Bad Homburg, quel loro essere sospesi in alto fra gli alberi del bosco – macchie di luce nella scura foresta tedesca -, conferma la loro essenza di apice dell’essere, come l’occhio onniveggente di Dio. Queste forme si librano al di sopra degli alberi in una visione autonoma, e al tempo stesso la loro pienezza segna e informa di sé la pienezza della natura. L’occhio divino di Tadei è benigno, benedice il mondo che vede ed è, in sé, benedetto, non giudica: è lo sguardo di Dio prima della Caduta, quando, come narra la Genesi, osservando il cosmo che aveva creato disse che “era cosa buona”.

Ma allora, come interpretare un’altra opera dell’artista, quel Giardino dei pensieri (2001), in cui ogni pensiero è protetto da un vetro, quasi fosse una reliquia preziosa? I pensieri – a volte Tadei li chiama intuizioni, come ne L’orto delle intuizioni (2000) – sono allineati in file, come campioni medici in attesa di essere analizzati da uno studioso del cervello, perché somigliano a cervelli, benché sottoposti a una mutazione, persino distorti in maniera grottesca. Sembrano anche formazioni viscerali e bizzarre, fusioni surreali tra creatura e vegetale, con l’aggiunta di un pizzico di minerale: le formazioni intelligenti di Tadei hanno la stessa cupa assurdità, la stessa febbrile complessità delle enigmatiche strutture dei giardini esotici di Max Ernst. Possono riprodursi (e incrociarsi) nella serra dell’inconscio dell’artista – come suggeriscono Il giardino bianco (2000), Il giardino dell’Eden e Il giardino su Marte (entrambi del 2004) -, eppure sembrano piene di un’inquieta coscienza, come rivelano le volute serpeggianti dell’intrico in cui si auto-avviluppano.

Per me, gli occhi luminosi e riccamente colorati di Dio e i cervelli tutti più o meno cupi – grigiastri e tenebrosi eppure animati, per non dire bizzarramente organici (e maniacalmente pensierosi) – costituiscono gli antipodi dell’arte di Tadei. Come può l’artista essere autrice di entrambi? A meno che non ci stia dicendo che i cervelli per crescere hanno bisogno della colorata luce solare degli occhi. Qual è, dunque, la loro relazione? O forse non ve n’è alcuna e Tadei è divisa da se stessa, una personalità artistica scissa, che fa il gioco degli estremi contro il mezzo – anche se un vero mezzo non c’è. Il mezzo – l’intermediario – sembra essere il corpo, come suggerisce Angelo (2002), solo che il corpo si è sottratto: l’angelo è caduto, il corpo si è spezzato – la testa e le braccia sono state tagliate via dal torso -, e ciò ci rivela la sua natura di angelo-Icaro. La testa può anche continuare a pensare, come suggerisce Meditazione (2004) – gli occhi chiusi, concentrati in una contemplazione tutta rivolta all’interno, stanno senza dubbio immaginando la scultura astratta, una costruzione di piani azzurro-cielo, sospesa dietro di loro – ma, insieme al corpo nudo, qualcosa di essenziale è andato perduto: la natura primitiva.

(L’angelo luminoso di Tadei è degno di quello di Rilke, che comunica bellezza e terrore al tempo stesso, come scrive il poeta nella decima Elegia di Duino. L’uso di strisce di neon rosso a simboleggiare il sangue che scorre è un colpo di genio, e questa è una delle ragioni per cui penso che la sua visione dell’angelo sia originale, certamente inconsueta nell’arte moderna. I primi disegni di Tadei rivelano che l’artista è una studiosa del corpo, il quale però tende a dissolversi nel colore – quei colori che diventano ancora più vividi negli occhi di Dio -, suggerendo in tal modo che il colore è per lei più importante della corporeità, benché sia possibile affermare che gli occhi di Dio mostrano la corporeità del colore vissuto e vivente. È inoltre degno di nota il fatto che la testa di Tadei è una specie di sostituto del corpo. La sua consistenza sensuale, misteriosamente simile alla carne, che ricorda le teste di Medardo Rosso, suggerisce che si tratta di un distillato estetico di corporeità vissuta.)

Mi sembra che la natura “bassa” sia stata trasferita nelle “altezze” del cervello, il che spiega il loro aspetto paradossalmente primitivo – il perché della loro convulsa visceralità di crescite organiche incontrollabilmente spontanee -, mentre gli occhi di Dio sono astrazioni mentali, simili alle astrazioni angeliche che fluttuano come presenze luminose in Equilibri (1995-96), frammenti di luce ondeggiante disposte in un crescendo che sale fino al cielo. Sono sezioni incrociate di una piramide ascendente, carica, per così dire, di una luce virile che le solleva tenendole al tempo stesso sospese in uno spazio tutto loro. Il cervello può pensare i suoi pensieri astrattamente “artistici”, come suggerisce Meditazione, ma se l’occhio fiammeggiante di Dio – che non si chiude mai, a differenza degli occhi umani che devono necessariamente chiudersi per vedere il mondo interiore con l’occhio della mente – non brillasse sopra di lui, non potrebbe pensare o, più precisamente, sperimentare quella che Jacques Maritain chiama “intuizione creatrice”, la stessa che Dio “utilizzò” per creare l’universo.

E veramente l’arte di Tadei aspira all’universo: i suoi cervelli sono varianti dell’intricata mente divina – di certo molto più complessa rispetto a quella umana. Più esplicitamente, quelle entità organiche, auto-generanti e in costante mutamento che sono i suoi cervelli, stanno all’occhio astratto di Dio – cui il colore cangiante (tradizionalmente inteso come elemento organico, a differenza della linea, l’elemento transorganico astratto che l’intuizione creatrice “vede” in natura) conferisce un carattere organico – nello stesso rapporto dialettico che sussiste tra conscio e inconscio. L’arte di Tadei non è dunque discorde da se stessa, ma è dialettica, tanto più che i suoi cervelli primitivi possono essere interpretati come versioni microcosmiche dei suoi astratti occhi macrocosmici: l’implicito cambiamento di scala non cambia in nulla il fatto immaginativo per cui gli occhi astratti comunicano la raffinata essenza interiore dei cervelli esternamente grezzi. Gli occhi di Dio sono fiori che sbocciano nel suolo fertile della mente, nello stesso modo in cui sembrano sbocciare dagli alberi in Divini Vultus.

Tadei è un’artista spirituale, nel senso che usa l’arte astratta come mezzo in vista di un fine spirituale: strumento della coscienza spirituale, com’era per Kandinskij. Così Tadei riporta l’astrazione alle sue origini spirituali – di nuovo, analogamente a Kandinskij, è convinta che l’arte sia parte essenziale della vita dello spirito, come l’artista russo scriveva nel 1912 nel suo Lo spirituale nell’arte. E come per Kandinskij, anche per lei lo spirituale è collegato con quanto è stato vagamente definito nei termini di bellezza decorativa: l’aspirazione spirituale si esprime in meandri di sfolgorante colore puro. Ma Tadei ripristina un elemento da cui Kandinskij rifuggiva: il senso della corporeità trasmesso dai suoi pensieri, che cresce spontaneamente nel giardino della sua arte. Cioè, in ognuno dei suoi colori è insito un corpo ben preciso, ed è questa la ragione per cui, per quanto “decorativi” possano essere, essi si proiettano nello spazio e al tempo stesso ci seducono attraendoci verso e dentro di loro. La corporeità spiritualizzata e la spiritualità implicita nel corpo, o almeno nella sua parte pensante – il cervello – sono espressi in un delirio di colori, emblematici di quell’estasi che “si libera dal corpo”, per citare l’epigrafe di Gilbert Murray. Eppure, paradossalmente, l’estasi – e il decorativo al suo apice eccitante e ricco di colore, come negli Oculi Dei, è intrinsecamente estatico – è impossibile senza il corpo, anche se nella forma piena di risonanze simboliche del cervello, nella sua vistosa e persino grossolana corporeità, malgrado tutta la sua facoltà cosciente e la sua capacità di coscienza spirituale, che è la più creativa di tutte.

Credo che uno dei compiti più importanti – e una responsabilità fondamentale – dell’arte del XXI secolo consista nel ripristinare un senso del sacro e con esso una spiritualità illuminata e illuminante, in una società divenuta ancor più materialista di quella già stigmatizzata come tale da Kandinskij al principio del Novecento, rivelando quanto essa sia inconsapevolmente più povera dal punto di vista estetico e spirituale di quanto non fosse all’inizio della modernità materialistica. Tadei si dedica con successo a questo compito etico, creando opere d’arte spirituali convincenti in cui fa uso di un’estetica modernista, indicando così che l’arte spirituale è necessariamente arte pura (anche se non tutta l’arte pura è necessariamente spirituale, come dimostra l’astrazione minimalista). Wilhelm Worringer notò in un suo celebre scritto che il fatto stesso di esserci alzati in piedi a osservare il cielo – permettendo alla mente di pensare alla vastità dell’universo anziché al prossimo pasto da consumare, cosa che ci distingue dai quadrupedi – ha generato in noi un “senso di insicurezza” (2). I cervelli di Tadei suggeriscono che vi è un istinto alla spiritualità che trova il suo oggetto più alto nell’occhio di Dio – oggetto di pura spiritualità – e che quel senso di insicurezza può essere superato grazie a un coinvolgimento estatico in quello sguardo, in modo da divenire un tutt’uno con esso, che diventa così l’occhio interiore della nostra coscienza, puntato saldamente verso il cielo. L’unione mistica con il divino è il sottotesto dei cervelli pensanti di Tadei, diamanti spirituali allo stato grezzo.

Infine, è opportuno prestare attenzione ai materiali usati dall’artista – che dà prova di una straordinaria sensibilità verso i differenti elementi materici della sua arte, molti dei quali sembrano a loro volta intrinsecamente sensibili (compreso il colore, il più prezioso e delicato tra i materiali, benché tanto comune e familiare) – e alla trasformazione immaginativa cui vengono sottoposti. Tadei ha fatto estensivamente uso del plexiglas, certo a causa della trasparenza e luminosità di questo materiale, della sua capacità di trattenere e incarnare la luce e di “illuminare” il colore. L’opera Le quattro sorelle (2004) – un gruppo di strutture figurative astratte, ciascuna con un suo peculiare carattere totemico – ne è un esempio ricco di colore. Mandala (2004) è un’altra costruzione astratta in plexiglas fatta di frammenti adagiati sul pavimento in ordine sparso, con le sue parti vivacemente colorate intarsiate di piccoli occhi di Dio, un esplicito riferimento alla meditazione spirituale. Il mandala è scomposto, sta all’osservatore ricomporlo con l’occhio della mente. Somiglia a un fiore, ma sappiamo che non appartiene a questa terra, benché sia, letteralmente, sulla terra. Ma soprattutto l’uso che Tadei fa delle piume – immacolate come la pelle del suo Angelo e il marmo polverizzato de Il sogno bianco (1998) – inserite in globi disposti su un quadrato di plexiglas specchiante ne Il giardino su Marte, è particolarmente degno di nota. Le piume divengono spontaneamente creature viventi, ibride, ambiguamente a metà tra vegetale e animale, forse anemoni di mare o esseri enigmatici tenuti in vita nell’acqua in virtù di un esperimento. L’opera è ingannevolmente semplice; in realtà, il suo fulcro spirituale è molto complesso. Gli oggetti sono posti in un sottile equilibrio e l’opera nel suo insieme si legge come una squisita natura morta. I globi possiedono la rara bellezza di forme di vita ultraterrena, che si sono appena evolute attraverso l’arte.

L’opera che pare più caratteristica dell’arte di Tadei emana una sensazione di quieto rapimento. Equilibri – un’altra astrazione biomorfica realizzata con piume e tessuti delicati – ci comunica la stessa sensazione di intimità, lo stesso silenzio estatico e sembra anch’essa fatta per la meditazione. Come la costruzione piramidale della Scala del paradiso (2004) fatta di piani di alluminio e plexiglas, ciascuno dei quali forma una superficie autonoma di un giallo brillante, queste opere – assieme alla serie più “pittorica” degli Oculi Dei – sono pura estetica, cui è stata conferita una dimensione spirituale, anche se l’estetica dei giardini di Tadei ha più a che fare con le origini della vita che con il suo fine spirituale. L’altra sua opera, dal titolo + (2000-2001), il cui specchio contiene tutto il cosmo colorato, rende ancora più esplicito questo punto. Se gli occhi di Dio e le intelligenze della natura sono le “idee emblematiche” di Tadei, allora La Sapienza Creatrice (2006-2009) è la sua “opera emblematica” nel senso che Harold Rosenberg attribuisce a tale espressione, perché si tratta di una sorta di grandioso gesto astratto di auto-creazione. Epica e lirica al tempo stesso, intensa e solenne, splendente di colori e trionfalmente eretta nello spazio aperto, comunicando a sua volta la propria apertura nei confronti dello spazio – implicitamente cosmico, come a riconoscere quella “emozione cosmica” che secondo Roger Fry veniva suscitata dall’astrazione pura – l’opera ha in sé quella nota di insicurezza di cui parlava Worringer, perché sembra in precario equilibrio, benché partecipe della luce, come rivela la sua splendente sommità (la stessa purezza che conosciamo da altre opere). Può essere letta come una sintesi tra l’occhio divino e la mente della natura – l’intelligenza astratta di Dio sottoposta a una torsione organica, come il suo intreccio di curve sembra suggerire, ma anche l’intelligenza della natura con la sua sapienza creativa – e in quanto tale come un tentativo convincente, sia dal punto di vista espressivo che da quello percettivo, di risolvere quella che rimane la dialettica fondamentale del modernismo: l’Astrazione ed empatia di cui Worringer autorevolmente scriveva nel 1908.

Da un lato c’è “l’immenso terrore spirituale dello spazio”, che reca con sé un bisogno di serenità e trascendenza che viene soddisfatto dall’astrazione. Tramite l’astrazione dalla natura, l’insicurezza suscitata dallo spazio cosmico – la sensazione di essere smarriti nell’universo – diviene trascendenza dalla natura stessa. Dall’altro lato c’è l’empatico “piacere della forma organica”, “delle linee e delle forme della vitalità organica, l’eufonia del suo ritmo”, che porta con sé “l’attivazione libera e spontanea del sentimento vitale” e con essa l’élan vital e la creatività. La Sapienza Creatrice possiede l’eufonia del ritmo organico – l’intimo godimento dell’esistenza vitale, per così dire – ed esprime la libera creatività dell’artista e il suo empatico apprezzare la vita, rimanendo al tempo stesso ingegnosamente astratta, abbracciando lo spazio cosmico pur trascendendolo energicamente. In quest’opera vi è un senso di inevitabilità – il sublime apice dell’astrazione organica operata da Tadei – che solo la vera arte trasmette. È un’opera di perfezione onnisciente. L’artista porta alla luce la bellezza astratta nel mistero della vita senza perdere il suo slancio vitale, suggerendo così la propria sapienza creatrice.

Qualche riflessione finale sul posto occupato da Marialuisa Tadei nel panorama dell’arte contemporanea. Una delle ragioni per cui la sua opera si distingue dalle altre è che si oppone alla tendenza anti-estetica e con essa alla ideologizzazione e alla generale evoluzione verso il kitsch. Il cosiddetto postmodernismo porta con sé una versione kitsch dell’espressionismo che diventa “espressionismo pop”, come il surrealismo diventa “surrealismo pop” (questi sono i termini usati, e approvati, dal direttore del New Museum di New York). A ciò si aggiunga la “kitschificazione” dell’astrazione, che diviene anch’essa “astrazione pop”. Simili sviluppi postmodernisti sono altrettanti aspetti di un’avvilente assimilazione della grande tradizione modernista, con tutta la profondità del suo obiettivo estetico ed emozionale, nell’industria dell’intrattenimento o in senso ampio in quella che Adorno e Horkheimer chiamano l’industria culturale della società di massa, che tende al livellamento dell’esperienza personale trasformando la profondità in superficialità e agevolando così la manipolazione e collettivizzazione dell’individuo.

Ciò si collega a uno sviluppo “postmodernista” di tipo più teorico: l’idea che l’arte possa essere ridotta ad affermazione ideologica, più in particolare, che serva a un fine politico prima ancora che personale (cosa che presumibilmente non è più tenuta a fare): quello che chiamerei un fine estetico-spirituale-terapeutico. In realtà, lo slogan femminista per cui “il personale è politico, il politico è personale”, che evoca l’intercambiabilità dei due termini, è diventato il credo di un certo pensiero postmodernista. Un pensiero che comporta la totale riduzione della soggettività a oggettività sociale, la banalizzazione dell’esperienza interiore, che diventa un’ombra priva di significato dell’esperienza esteriore, una spina accidentalmente conficcata nel fianco del potere, che la strappa via liquidandola come un’illusione prima che possa sollevare degli interrogativi sulla realtà del potere stesso. L’esperienza soggettiva è il tallone d’Achille del potere perché implica un soggetto che non può essere completamente sopraffatto, dunque una certa resistenza al potere sociale, per quanto futile in quanto irrealizzabile nella pratica. Perduta la sua valenza soggettiva e ridotta a pura ideologia, l’arte diviene socialmente conformista, ovvero assume il proprio posto secondario nel sistema dominante.

L’ideologizzazione dell’arte e la sua evoluzione verso il kitsch non fanno che appiattirla e possono essere interpretati come uno fra i tanti aspetti del generale appiattimento – instupidimento, annullamento – della coscienza in quella che Saul Bellow definisce la nostra “società della distrazione”. Ciò che ammiro nell’arte di Tadei è la sua bellezza estetica e la sua intensa biofilia, quel suo ripristinare un senso del sacro nei termini di un’astrazione modernista intesa in senso alto: questi sembrano essere i soli termini in cui la coscienza spirituale ha la possibilità di sopravvivere. Gli straordinari giardini di Tadei suggeriscono che è ancora possibile fare dell’arte un hortus conclusus, un Eden emozionale ed estetico (per quanto bizzarre siano le sue formazioni) in cui coltivare una coscienza spirituale, avere intuizioni e meditare sul sacro (“vedere” estaticamente, con il proprio sacro occhio interiore, la sapienza della creazione), nel deserto di una cultura pop che intorpidisce la mente e lo spirito, vuota di sapienza creativa e proprio per questo strumento massimo di potere sociale e de-individualizzazione del nostro tempo.

Note:
(1). Cit. Bertram D.Lewin, The Psychoanalysis of Elation, New York, 1950, p.145
(2). Wilhelm Worringer, Abstraktion und Einfühlung, München, 1908, p.16