MARIALUISA TADEI: ENDLESSLY
Yesterday Tadei Tomorrow

Per quasi la metà del secolo scorso, nell’evoluzione del discorso modernista – che oggi siamo obbligati a definire post-modernista –, la scultura, così come ci è nota dall’alba dell’umanità, ha subito un costante processo di smembramento, dal momento che il concetto cerebrale ha preso il posto che – tradizionalmente – è stato della pietra. La scultura nel nostro tempo è passata da terrena ad aerea. Per primo è stato eliminato il piedistallo che separava l’opera dal terreno, dopo di che, tutto il resto è stato alla mercé di chiunque.

Questo sconvolgimento estetico è qualcosa di paragonabile all’erosione delle barriere coralline, che molti vorrebbero attribuire al cambiamento climatico mondiale e che, come ci dicono gli esperti, è colpa del patriarcale capitalismo coloniale dell’Occidente, ma questa è un’altra storia rispetto a quella che affrontiamo qui. Qui parliamo invece della scomparsa e della inevitabile, fortuita rinascita della più antica forma d’arte del genere umano: la scultura.

Nell’arco di oltre due decenni, Marialuisa Tadei si è presentata progressivamente come una delle mani più solidamente scultoree della scena italiana odierna.

È riuscita a rendere visivamente manifesta la sua fede spirituale per la palpabile forma materiale nell’incorporeità senza peso, nell’elaborazione di corpo e anima. Qui c’è la padronanza dell’arte scultorea, ma anche un cogliere intuitivo del più recente vocabolario della prassi artistica contemporanea, sebbene la sua tematica principale non sia affatto conforme al dogma del “politicamente corretto” che si è imposto su tutti gli aspetti dell’atteggiamento umano, e in particolare nel mondo artistico.

L’artista ha basato tutta la sua impresa scultorea – si potrebbe dire fin dal principio – su una forte fede cristiana, che di rado si incontra nell’arena ideologica chiamata “arte contemporanea”.

Di per sé, il termine “arte contemporanea” è un’etichetta ingannevole, che risale forse ai tardi anni cinquanta, quando nuovi artisti iniziarono ad apparire nel già affollato mondo del moderno. Pertanto, si diede vita a una nuova categoria, e con essa a nuove istituzioni, per dare spazio a questa speranzosa e ottimista generazione post-bellica di spiriti creativi; al contempo, si dichiarava inavvertitamente concluso il modernismo in quanto epoca storica, senza considerare le conseguenze nel creare una dinastia dell’immediato storico, l’éternel contemporain: un eterno plateau dinastico dei contemporanei.

Con il modernismo, avevamo vissuto con l’illusione che la creatività di talenti fortemente personali ci avrebbe sorpreso anno dopo anno con meraviglie inattese sotto il diktat del contemporaneo, uno sconfinato plateau disteso sotto i nostri occhi con tutta l’immobilità delle dinastie dell’antico Egitto. Sebbene entrambi siano morti, Marcel Duchamp resta per sempre contemporaneo, George Braque no, purtroppo.

Con la pura fascinazione della bellezza e della prontezza della sua opera, Marialuisa Tadei è riuscita abilmente a schivare quelli che avrebbero potuto essere gravi pericoli di esclusione censoria, se le motivazioni centrali del suo lavoro fossero state comprese appieno dai radicalmente secolari elementi costituenti il regime di correttezza politica tipici del contemporaneismo più conformativo. Da sola, la sua straordinaria padronanza dell’idioma post-moderno e la sua profonda fede religiosa l’hanno protetta da una simile disgrazia, e l’impatto della sua opera ha probabilmente distratto quei materialisti empirici il cui dogma è essenzialmente anti-religioso.

La sua opera spazza semplicemente via tutte le reazioni tranne quelle pertinenti all’incontro stesso. L’arte dello scultore è sempre stata accompagnata da un tocco di prestidigitazione e di magia, come Gianfranco Baruchello – artista pioniere del suo tempo e scrittore – ha magistralmente spiegato nel suo saggio Che cosa guardano le statue?. Possiamo imbatterci in questo lacerante enigma metafisico a Tivoli, o quando entriamo nel Giardino di Boboli a Firenze, o quando passeggiamo negli ariosi spazi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, o quando esultiamo per la frizzante sorpresa che ci dà uscire improvvisamente alla luce del sole dopo aver percorso le strade ombrose che conducono a Piazza Navona, dove indugiamo nella gioiosa danza di acqua e marmi uscita dalle mani di Bernini, lo Shakespeare degli scultori.

È probabile che la stessa Tadei fosse già allora consapevole di ciò che stava facendo, ma anche in questo caso restiamo nel dubbio. Potrebbe altrettanto essere vero che la saldezza della fede le fosse sufficiente per portare avanti il suo programma scultoreo senza dubbi o ripensamenti. La sua è una beatitudine che si rinnova e si espande di continuo.

Prima di continuare, tuttavia, torniamo indietro di quattro decenni, alla fonte della smaterializzazione della scultura modernista, e tentiamo di sciogliere le influenze sociali e filosofiche che hanno condotto al dominio dell’immagine incorporea rispetto alla forma scultorea concreta. Alla fine degli anni sessanta, gli artisti – insieme alla maggioranza dei giovani – sono entrati in una sorta di sciopero generale diffuso contro la società borghese conventuale così come la si conosceva da sempre. Questa generazione, figli e figlie di quanti avevano sofferto durante la depressione economica e la Seconda guerra mondiale, adesso era obbligata a partecipare a un’altra festicciola organizzata per loro, la guerra del Vietnam, e questo proprio quando le cose si stavano facendo interessanti.

La ribellione giovanile del ’68 fu in un certo senso un ritorno ciclico del libertinismo illuminista che aveva galvanizzato la tragedia della Rivoluzione francese, e dimostra ancora una volta che le rivoluzioni falliscono o riescono in base alle frustrazioni sessuali di una massa demografica disordinatamente ampia di giovani.

Gli scultori si convinsero che realizzare opere d’arte adatte ai salotti dei milionari non faceva più per loro, quindi si spinsero nel deserto, come i profeti biblici prima di loro e, allo stesso modo, assunsero il dominio della Parola, espandendo il loro raggio d’azione alla lingua stessa e rendendo scultorea la linguistica con un procedimento in cui l’affermazione divenne forma, le parole rappresentarono la forma concreta. Il lessico sostituì il cesello e il martello.

Fu sostanzialmente una rivoluzione marxista volta a sabotare il mercato consumista delle gallerie d’arte, colpevoli di “sfruttare” un proletariato di “operai dell’arte”, e a liberare gli artisti dalle catene del capitalismo, per arrivare finalmente a produrre un’arte che sfidasse qualunque tentativo di considerare il lavoro degli artisti come un prodotto vendibile. John Gibson, un giovane mercante d’arte di New York appassionato di fotografia, insieme ad altri sparsi per il mondo, come Marian Goodman, Rene Block, Nicholas Logsdale, seguirono in modo zelante Marcel Duchamp e John Cage. Secondo alcuni, fu Gibson ad aprire il vaso di Pandora che convertì la scultura nella forma fotografica. C’era lui dietro al progetto degli artisti concettualisti radicali europei e americani, ma poiché aveva comunque bisogno di qualcosa da vendere nella sua galleria newyorkese, li incoraggiò a produrre grandi fotografie che documentassero opere d’arte che, a dimensione reale, potevano occupare due chilometri quadrati.

Così, il bronzo, il marmo, il legno furono relegati alla storia e la documentazione fotografica concettuale iniziò a farla da padrone, relegando al contempo la fotografia moderna “convenzionale” nella spazzatura.

Gli sviluppi che colarono dalla nouvelle cuisine della filosofia francese nel nouveau roman della letteratura francese, insieme alla nouvelle vague del cinema francese, si occuparono del resto.

Il razzo propulsore di questa navicella spaziale arrivò con i progressi nella tecnologia delle comunicazioni. Negli anni settanta, le videocamere erano macchine immense, grandi quanto la testa di un cucciolo di ippopotamo; le persone si mandavano lettere scritte a mano; non esistevano telefoni cellulari, fax, email. Una macchina fotografica Polaroid o una macchina da scrivere Selectric IBM erano status-symbol high-tech; l’idea di un computer domestico era solo una chimera.

È anche importante ricordare che l’Unione Sovietica era ancora in pieno vigore e tutto lasciava pensare che godesse di ottima salute. Fu solo nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino che l’intera struttura di riferimento che aveva racchiuso il contesto culturale di qualunque opera d’arte cadde improvvisamente a pezzi sotto il proprio peso. Rimasta senza appigli ai quali attaccarsi, la crescente ondata cibernetica travolse il ciclo di vita della tecnologia informatica, dal momento che gli artisti avevano abbracciato il regno dell’arte foto-narrativa concettuale una generazione prima. Aspettando Godot di Samuel Beckett non sarebbe mai più stato visto sotto la stessa luce.

Dopo un lungo apprendistato, Marialuisa Tadei si affacciò al mondo dell’arte in un momento particolarmente ambiguo alla fine degli anni novanta, quando le spinte ideologiche stavano formando nuovi raggruppamenti dietro nuovi fronti, e le linee-guida socio-estetiche stavano ancora vacillando sotto la scossa geopolitica della perdita dell’ammira- glia comunista, l’URSS.

Si potrebbe dire che il principio-guida della sua fede cattolica sia stato fin dall’inizio il fattore primario che, in qualche modo, l’ha condotta per mano alla cieca, navigando in queste acque agitate con fiduciosa serenità, in un momento in cui il terreno del marxismo anti-occidentale era crollato sotto i piedi di artisti improvvisamente disorientati, che cercavano rifugio professionale nelle artificiose ideologie di ecologia, femminismo, anti-globalismo, genderismo e altre che non vale nemmeno la pena menzionare.

C’è persino una sorta di schietta innocenza, una fondamentale semplicità che sconfina con l’infantilismo, che le offre una serenità e una forza incontrate di rado. C’è persino – ci si potrebbe spingere a dire – una forza d’animo di stampo biblico, che si auto-alimenta, e sostiene e rinnova senza sforzo la sua opera artistica nel suo stato di divina leggerezza.

Si può dire che la spontanea capacità di continuo rinnovamento e arricchimento del motore propulsore della sua creatività si alimenti dalla fonte rinnovabile della fede. Ma se volessimo usare una parola cui spesso ricorrono gli artisti che si considerano in primo luogo post-moderni, la sua “strategia” è stata quella di appropriarsi costantemente delle tattiche della reificazione e del disincarnamento ideate dai rivoluzionari artisti dei tardi anni sessanta e, in un certo senso, quella di combattere il fuoco con il fuoco, battendoli sul loro stesso terreno, applicando i loro stessi metodi per arrivare a obiettivi diversi: prendendo il titolo della pionieristica esposizione di Harald Szeemann (1968), When Attitudes become Form e trasformandolo in When Faith becomes Form.

Da quando papa Paolo VI ritenne che fosse adeguato prendere la coraggiosa e visionaria decisione di inaugurare un museo di arte moderna per completare le venerabili collezioni del Vaticano, altri pontefici hanno ritenuto opportuno rinnovare questo sforzo, come ha dimostrato in maniera eclatante Ratzinger quando ha ricevuto in udienza sotto gli affreschi della Cappella Sistina gli artisti più attivi del momento. In quella occasione, Ratzinger ha esortato il gruppo di creativi – non esattamente la personificazione dei fedeli e assidui frequentatori della liturgia – a tornare alla Chiesa e riconsiderarla come luogo accogliente per la loro ricerca creativa. Questo impegno è stato più di recente sottolineato dalla scelta storica e sbalorditiva di aprire un padiglione ufficiale del Vaticano alla Biennale di Venezia. Marialuisa Tadei si rivela come una delle artiste di maggior successo attive oggi a essersi avvicinata così tanto alla risoluzione del dilemma di manifestare una profonda fede cristiana con una piena padronanza dello stato dell’arte dei vocabolari contemporanei, proprio come fino a tempi recenti alla radio americana non è mai esistito sulla faccia della Terra un comico conservatore davvero divertente finché non è arrivato Rush Limbaugh.

La sfida delle religioni nel mondo è sempre stata, dopo tutto, offrire speranza, consolazione e risposte definitive alle più solenni domande che gli uomini e le donne mortali si pongono nella vita: tutte le forme di espressione artistica hanno sempre partecipato in maniera attiva e diretta – per quanto obliqua – a questo dialogo con il divino.

Eppure il modernismo ha cercato, per sua stessa natura, di esprimere il suo distacco con tutte le forme di credo tradizionale, forse con l’eccezione del materialismo di Epicuro e del suo seguace Lucrezio. Così, una delle debolezze intrinseche di tutti i tentativi modernisti è di formulare la fede ed esprimere la devozione attraverso il vocabolario del moderno. Pochi hanno avuto successo in termini artistici o devozionali. Forse si può dire che tutti gli artisti, inconsapevolmente o meno, stanno tentando di raggiungere questo obiettivo.

Marialuisa Tadei è riuscita a ricontestualizzare cent’anni di vocabolari moderni e postmoderni per metterli al servizio di 2000 anni di fede cristiana.

Come ha detto: Cerco di coniugare le forme della natura e l’anatomia dell’essere umano affinché diventino mistici; di creare un’anatomia mistica, con riferimento sia alla natura umana sia alla natura stessa. Per “natura” intendo i fiori, le stelle, le galassie, le rocce. Perché, alla fine, il limite tra figurativo e astratto non è una linea di demarcazione chiara. Se si osservano il palmo di una mano o le venature di una foglia, somigliano a una composizione astratta: la nostra interpretazione dipende dal punto di vista che vogliamo assumere. Io desidero portare all’arte contemporanea e al suo pubblico la consapevolezza di un’altra dimensione, una dimensione che va oltre a quella materiale e mondana. Simone Weil ha detto, “la bellezza ha il compito di portarci oltre noi stessi”. Pertanto, io cerco di condurre lo spettatore oltre sé stesso, di farlo entrare in un’altra dimensione. Entrando in un’altra dimensione, egli diventa consapevole della spiritualità, della sacralità a lui stesso connessa. Non èun discorso astratto, lontano dall’umanità. C’è una corrispondenza fra Dio e Uomo, un dialogo che può essere espresso attraverso le opere d’arte. Voglio che gli esseri umani facciano un salto che permetta loro di vedere la connessione tra l’assoluto e l’infinito.

L’equilibrio di pesi e misure del mondo materiale in termini metafisici è cruciale nella sua pratica scultorea e questa è una delle lezioni essenziali che ha portato con sé da Düsseldorf, dove ha avuto l’enorme fortuna di essere invitata da Jannis Kounellis per un periodo di otto-nove mesi, un’esperienza dalla quale ha imparato cose che porta con sé ogni giorno. Un tema che, come lei stessa ricorda, stava a cuore a Kounellis era la poesia e la sua giustapposizione di leggerezza e pesantezza: qualcosa di leggero e qualcosa di pesante, quando messi assieme, creano la poesia e l’equilibrio della composizione.

Già da piccola, la sua ambizione era – un giorno – essere capace di costruire una macchina in grado di visualizzare alla luce del sole i sogni che aveva fatto di notte, dandole così la possibilità di cogliere le proprie visioni a suo piacimento. Il desiderio d’infanzia di dell’artista di catturare i sogni in forma concreta oggi si è realizzato.

Quando ho visto per la prima volta l’opera di Marialuisa Tadei, il mio apprezzamento per il suo lavoro sfaccettato ha iniziato subito a trasformarsi in una sensazione di viscerale riconoscimento. Le variazioni di scala, materiale e tecnica erano enfatizzate dalla perizia dell’uso del colore, dalle forme cromatizzanti in maniera magnetica, come hanno fatto – tra gli esempi più illustri – scultori come Alexander Calder e Jeff Koons.

Marialuisa Tadei utilizza gli assi verticali della dimensione orizzontale con l’intenzione di creare le estensioni verticali che interagiscono con la Terra alla quale sono magneticamente attratti e dalla quale lottano per liberarsi.

C’è qualcosa di gotico in questa polarità di tensioni, di pesi e leggerezza. Molte delle sue opere sembrano trasformare il frequente uso della tensione tra apertura e chiusura, creando un “oltre”, una serie di presagi dell’infinito. Definiscono lo spazio cosmologico attorno a sé non come un vuoto, ma come un campo espansivo, quasi come Calder fece con i suoi “mobili” e “stabili”.

Caricato di una sorta di energia magnetica gravitazionale nella sua relazione con il pavimento, c’è un carattere inconfondibilmente sacrale in questo fenomeno, un fenomeno che parla la lingua delle cattedrali e delle cappelle, una monumentale forza spaziale indipendentemente dalla dimensione, una forza che attiva l’aspirazione verso il volo e la levitazione.

Come le superfici levigate di alcune sculture prive di piedistallo di Lucio Fontana, e altrettanto sferiche nella forma, queste opere essudano un campo magnetico, in autonomia o in collusione. Qui, entrambi gli artisti stanno affrontando la periferia delle superfici e il dettaglio con pari interesse. La scultura ha un carattere geologico, un carattere che ci si potrebbe persino spingere a definire “di geologia farmaceutica”. Sin dai tempi antichi vediamo tracce di pietre trasportate per grandi distanze e ci imbattiamo in specifiche proprietà medicinali, o virtù, attribuite ad alcune pietre che sono ammantate della capacità di proteggere o curare, umili o nobili in una vera e propria gerarchia araldica, come il porfido. Alberto Magno non era solo un teologo e un grande Padre della Chiesa, ma un “geologo diagnostico”, capace di prescrivere gli smeraldi come cura contro l’insonnia. Sembrerebbe che l’artista sia consapevole delle proprietà che irradiano dai materiali che usa.

È il momento che le opere d’arte, come credeva Joseph Beuys, vengano considerate come una necessità, essenziali per il benessere dell’umanità e non più un lusso, uno status symbol, un bene di consumo. Marialuisa Tadei ha avuto la buona ventura di mettere la sua laurea, una delle tante all’Accademia di Belle Arti, sotto la tutela di Giorgio Cortenova che in seguito ha dedicato un bellissimo saggio alla sua opera, in cui si legge:
Bellezza o eleganza? Entrambe. Entrambe capaci di rappresentare e trasmettere la virtù, la saggezza, l’humanitas e la ricchezza di sentimento. In altre parole, di dare un senso positivo e sociale al lusso, all’oro, al blu cobalto, alle grazie che erano tali per via dell’abilità di comunicare la virtù, il ritmo e la vitalità intrecciate in linee curve e ricamate, angolose e dardeggianti, come un volo che sfida impunemente il muro del suono.

Quando ci imbattiamo nel lavoro di un artista per la prima volta, dobbiamo prestare la massima attenzione, giacché procediamo nel creare, passo dopo passo, una piattaforma dalla quale prendono le mosse le nostre esplorazioni di terreni creativi sconosciuti, un punto di partenza dal quale avviare una nuova e ignota cronologia che ci serva da guida futura, e il tutto per assicurarci di non salpare nella direzione sbagliata, come fece Cristoforo Colombo quando scambiò l’America per l’India. Questo è particolarmente vero quando si tratta della miriade di funzioni espressive che utilizza nell’ampio spettro dei suoi dispositivi linguistici.

Dal momento che le grandi stampe fotografiche in cybachrome – prodotte in edizioni di 15 pezzi montate dietro plexiglass – derivano da acquerelli, iniziamo da questi: in una recente mostra a Palazzo Franchetti (Venezia), Marialuisa Tadei, insieme ad altri nove artisti italiani contemporanei, ha reso omaggio alle scoperte del telescopio spaziale Hubble, lanciato nello spazio nel 1990, con il titolo “Our place in space”.

I suoi acquerelli e le successive stampe fotografiche presentano un’incredibile somiglianza con gli strumenti fotografici a bordo della navetta che Hubble ha rispedito agli scienziati a terra.

Una cyberchrome del 2011 dal titolo Abissi Rosso (diasec 180 x 134 cm) esemplifica perfettamente queste opere. Le stravaganze astrologiche somigliano, a prima vista, a disegni a pastello floreali semi-astratti di Odilon Redon e, dopo una seconda occhiata, ricordano un simmetrico test di Rorschach. Abissi Rosso, come altre opere della serie intitolate Farfalla, Lampo, Viola possiede un etereo fascino oltremondano. “Tutte le mie forme sono ispirate dalla natura, infatti uso la linea circolare, simbolo dell’infinito, quando creo le mie opere”. È ragionevole pertanto concludere che – nella sua apparentemente effimera gamma di tonalità – l’acquerello rappresenti un inevitabile mezzo espressivo per le indagini grafiche. Inoltre, le nozze di scultura e fotografia sono un abbinamento perfetto che, in passato, parliamo di un secolo fa, è stato usato come strumento di lavoro da scultori come Auguste Rodin, Edgar Degas e Constantin Brancusi. Sempre rispetto all’acquerello, Marialuisa Tadei si trova ancora una volta in compagnia di Rodin, consumato acquerellista, come testimoniano i suoi ritratti di nudo di Isadora Duncan.

In questi eterei acquerelli, Rodin esalta la leggerezza del mezzo espressivo e, come accade nelle opere di Marialuisa Tadei, mette in relazione il tema della leggerezza e della pesantezza, così come rimarcato da Janis Kounellis. A tal proposito va menzionata anche la concreta chiaroveggenza di Joseph Beuys nel suo approccio sia all’acquerello sia alla fotografia, che usa in modo interscambiabile come un unico mezzo artistico. Come Joseph Beuys, Marialuisa Tadei sembra usare l’acquerello come strumento per la libera associazione intuitiva, sebbene con uno spettro di colore più brillante, che tuttavia non indurrebbe nessun osservatore a scambiarla per un espressionista tedesco.

Se arriviamo alla sua opera scultorea dagli acquerelli e dalle fotografie in cybachrome, reagiamo immediatamente alla sua propensione per un giusto equilibrio e la sua esemplare inclinazione a una disposizione delle masse al fine di creare un tutto, un aspetto che di rado gli studenti contemporanei cercano, che gli artisti trascurano e il pubblico sembra ignorare completamente. Questa propensione è una conseguenza diretta dello studio della natura, che l’artista stessa ha indicato come suo primario manuale o guida. In queste opere scultoree, la forma sembra seguire l’ombra ed emulare il contenuto alla stregua di un guanto che avvolge la mano e diventa una cosa sola con lei.

Nella sua esuberante opera intitolata Meeting, 2015, una scultura priva di piedistallo e realizzata in vetro soffiato e formato in fornace, l’artista – come in Creative Wisdom – ci mette di nuovo in contatto con la serpentina nel regno di Laocoonte e richiama alla mente di coloro che hanno potuto osservare questo fenomeno la fine del letargo, in primavera, di un nido di serpenti, o le esoteriche cerimonie pasquali con i serpenti celebrate nelle chiese calabresi. Tutte le recenti opere scultoree di Marialuisa Tadei sono policrome in maniera esuberante, come Together, Sospiro, Life, Meteroite, Fluid, tutte del 2017, e – a differenza dei colori “trovati” nella scultura metallica di John Chamberlain – fanno uso del levigato spettro cromatico pop di viola, blu, verde, arancio e giallo iridescenti che ci si aspetta di vedere nel maestro americano Jeff Koons o nelle meno note opere scultoree del pittore Roy Lichtenstein.

Scultrice e cocciuta profetessa, Marialuisa Tadei crea opere che irradiano energia che non proviene da nessuna fonte apparente, una qualità che condivide con un pittore contemporaneo di Roma, Alberto Di Fabio, i cui dipinti non hanno bisogno di batterie.

Una volta, Pablo Picasso disse che l’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni. Questa è la massima che Marialuisa Tadei ha messo in pratica.

Realizzata in un equilibrio di alabastro, acciaio, alluminio, onice, bronzo, schemi di mosaico e piume, la “macchina delle visioni” che Marialuisa Tadei aveva sognato di inventare da bambina, quella che avrebbe registrato i sogni reali, è perfettamente funzionante.

Venezia 2017
Testo di Alan Jones