Quando il ferro si fa poesia
Marco Pierini

Tre alti fasci di tondini di ferro legati assieme, in alto a formare altrettanti coni rovesciati al cui interno galleggiano in aerea sospensione delle piume raccolte da una rete.

Questa è la prima immagine che si presenta a chi visiti la mostra di MariaLuisa Tadei alla Galleria Atelier in via della Sapienza. Immagine di forte carica suggestiva, costruita attraverso contrasti tanto netti – pesantezza e levità, bianco e nero, stasi e moto – e altrettanto risolti in composto armonico equilibrio. È una scultura, quella di MariaLuisa Tadei, che predilige – dispetto del frequente utilizzo del ferro – una dimensione fatta di leggerezza e di linearità (e non meraviglia la sua parallela attività nel campo dell’incisione) come dimostrano anche tre strutture realizzate in ferro che si incontrano nel procedere dell’esposizione.

Di sottile fascino è l’opera che ne conclude il percorso, l’unica nella quale non si sia ricorso all’uso del ferro. Si tratta di un mobile ancorato al soffitto composto da quattro forme sagomate in rete, di grandezza digradante dal basso verso l’alto, che accolgono bianche piume.

L’illusorio movimento ascensionale, suggerito dalla struttura dell’opera e dalla sua sospensione nell’aria, e il reale moto in linea orizzontale provocato da ogni minima corrente (come l’accostarsi di chi guarda) si compenetrano mirabilmente in questo lavoro dove misura, proporzione, ritmo e scansione determinano un sereno bilanciamento di valori spaziali e temporali.

Le sculture e le installazioni conquistano gli spazi della galleria – belli ma di non facile gestione – con grande naturalezza in virtù di un allestimento attentissimo e sapientemente studiato pur nella sua estrema semplicità, basato com’è sul rapporto tra i volumi degli ambienti e quelli delle opere, e sulla misura degli spazi.Mostre come questa ci rafforzano sempre più nella convinzione di come sia vano oggi ragionare attorno ai fenomeni dell’arte contemporanea, secondo categorie usurate come quelle dell’inquadramento generazionale e della costrizione del lavoro artistico entro categorie precostituite e correnti esattamene configurate. Di fronte alla maturità del suo lavoro non è lecito infatti, parlare della Tadei – se non in termini anagrafici – come di una “giovane artista”; ogni tangenza con precedenti esperienze artistiche che si può percepire (e penso all’ “arte povera”, ma anche a qualche eco lontana di Calder) è da leggersi non come volontà di inserirsi in un solco o in una tradizione, ma come residuo attivo e fertile del processo di acquisizione del mestiere. Processo che, nel caso della Tadei, si è compiuto accanto all’iter tradizionale (Maturità artistica, Diploma all’Accademia delle Belle Arti di Bologna), con la Laurea al DAMS e con un periodo di studio alla Kunsakademy di Dusseldorf sotto la guida di Jannis Kounellis. L’elegante catalogo della mostra contiene uno scritto di Omar Calabrese ed è illustrato da splendide foto in bianco e nero di Claudio Abate.

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