Ravenna dà forma ai sogni dell’artista MariaLuisa Tadei
Sara Cecchini

“Quando ero piccola volevo inventare una macchina che fosse in grado di visualizzare i sogni” confessa timidamente Maria Luisa Tadei, l’artista le cui opere hanno dato vita al suggestivo e per l’appunto sognante evento Camminando tra Galassie, inaugurato lo scorso 17 Dicembre presso la Galleria Patrizia Poggi di Ravenna e visibile sino al 22 febbraio.

La curiosa iniziativa, a cura di Fabiola Naldi, è stata appoggiata non solo dal prestigioso spazio espositivo ravennate ma anche da Luminarte e dal Comune di Ravenna, che hanno “prestato” all’artista, per l’occasione, una delle vie centrali della città. Il passante carico di pacchi regalo, solitamente indaffarato e distratto, avvertirà infatti la strana sensazione di sentirsi osservato e alzando lo sguardo noterà immediatamente, al posto delle tradizionali e classiche luminarie natalizie, quattro grandi dischi di ferro (del diametro di 150 centimetri) su cui l’artista riminese ha effettuato una trasposizione dell’immagine digitalizzata della propria retina, in seguito rielaborata e ritoccata con colori vivi e infuocati.

Le piastre metalliche, esposte in via Argentario, fanno parte di un unico lavoro intitolato “Divini Vultus”: lo “sguardo di Dio” che osserva e veglia sulla città e sull’Uomo (particella dell’universo ma egli stesso universo) e che scruta e indaga la natura sensibile nel suo divenire. In realtà si tratta di uno sguardo di doppia natura, in cui le forme oculari umane aderiscono, essendone frutto esse stesse, all’essenza divina; il corpo è qui messo in mostra non tanto nel suo aspetto tangibile e funzionale quanto per svelare ciò che di ultraterreno ed originario esso cela oltre le proprie sembianze meramente concrete.

L’uomo dunque come specchio e frutto di Dio, compartecipe dell’atto originario della creazione e veicolo attraverso la cui familiare immagine si possa schiudere la conoscenza suprema. Ecco allora che l’installazione della Tadei apre una sorta di varco tessendo, per colui che è ancora disposto ad alzare gli occhi al cielo, un sottile filo comunicativo tra reale e soprannaturale. “Divini Vultus” è un momento epifanico, un attimo rivelatore che trae origine dal consueto, dal mondo che si presenta davanti ai nostri occhi nella sua apparente quotidianità. E’vero, una retina può anche essere solo e sempre una retina e nulla più ma accade, di tanto in tanto, in rari momenti di folgorazione, che lo sguardo riesca a superare le ostiche barriere della piattezza e si spinga più a fondo nella perlustrazione del reale fin quasi a toccarne l’essenza, scrostando lo spesso strato di materia che sino a quel momento lo ha reso cieco. L’essere allora vacilla, incredulo, meravigliato, quasi intimorito per il fatto di aver carpito un segreto di natura.

Si tratta dell’ “uscio mal chiuso” montaliano che permette di attingere, solo per un istante, al Vero assoluto. Stesso potere evocativo emanano i due dischi convessi esposti sul balcone della Galleria Poggi: “Incarnazione” e “Luna dei miei occhi” sono i titoli dati a queste due enormi sfere, entrambe eseguite a mosaico come omaggio alla notoria tecnica ravennate, che appaiono sempre come la trascrizione del retino visivo, anche se questa volta frantumato e spezzettato nelle migliaia di tessere che lo compongono, e in cui i colori si caricano ancor più di valenze simboliche universali nei loro studiati accostamenti. Qui il blu, riflesso dell’anima, si mescola con il rosso, rappresentante della corporalità e della carnalità umana, delle sue sanguigne passioni brucianti; ne risulta così l’incastro originario di spirito e materia, una girandola creativa vitale che parte dalla carne (l’occhio), attraversa mondi e intere galassie alla ricerca del sé, per poi tornare consapevole alla carne.

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