I giardini della metafora

La grande metafora moderna ha inizio nel cuore stesso della poetica barocca. Essa rappresenta la possibilità di narrare senza pagare tributi alla realtà, se non a quella ineludibile ed ermetica della vita e della morte, le “sorelle” che vanno in scena attraverso l’eros e si esprimono nel contrasto del bianco e del nero, nella convergenza screziata dei rossi che inquinano lo spazio, dell’oro che si spegne nei tramonti e dell’argento mortificato dai blu e dai grigi. Nel grande teatro di Calderón l’attore entra in scena dalla “culla”, la porta d’entrata nel palco, ed esce dalla “tomba”, l’arco in bilico nel buio, da cui si accommiata dopo avere recitato l’eterno dissidio della vita e del suo sogno, dell’amore e della sua sconfitta, mentre la bellezza è un fantasma che resiste malinconico alla condanna del tempo.

Ma se la bellezza barocca sopravvive al farsi e al disfarsi della materia, ciò avviene perché in essa riaffiorano i principi magici, etici e morali che avevano irrobustito la vicenda gotica “fiorita”. Bellezza o eleganza? Questa e quella insieme, capaci entrambe di rappresentare e trasmettere virtù, sapienza, humanitas, ricchezza di sentimenti. In grado cioè di dare un senso sociale e positivo allo sfarzo, agli ori, agli argenti, ai cobalti, alle buone maniere che erano tali perché in grado di comunicare virtù, ritmo, vitalità intessuta nelle linee curve e ricamate, o spigolose e guizzanti come un volo che affronta, impertinente, il muro del vento.

Marialuisa Tadei lavora da sempre in questi sentieri saturi di magia, di metafore, di sogni che si trasformano in realtà. E viceversa, come se questa e quelli svaporassero appena rappresi, prendendo forma plastica e subito dopo fuggissero verso un palpito d’ali, un gorgogliare di luce, un miraggio ingannevole che esalta e stupisce lo sguardo. Tadei ha compreso a fondo che lo spirito barocco travalica qualsivoglia periodo storico in cui un tale atteggiamento dell’animo abbia preso forma di poetica in senso stretto. Da tale punto di vista non può che essere d’accordo con Gilles Deleuze, quando, in Le Pli – Leibniz et le Baroque (1988), sostiene che il Barocco non è solo uno “stile” storico, ma che si tratta invece di una sensibilità transtorica, che appartiene sia al linguaggio gotico che a quello surrealista, sia a Klee che a Dubuffet, e via dicendo. Non è un caso, ad esempio, che la nostra artista condivida con Lucio Fontana il sentimento dello spazialismo barocco caro a Leibniz che ne contraddistingue per intero il percorso creativo.

È, quello di Tadei, uno spazialismo talmente contraddittorio da introdurci in quella vertigine dei sensi che appartiene agli esiti più alti degli sviluppi metaforici cui prima si accennava. L’esito è lì, tangibile e insieme evanescente come un sortilegio dello sguardo: la sfera e la bambagia de Il giardino dell’Eden (2004) galleggianti nell’argento come l’acqua sferzata dalla luna piena; oppure la sfera e la piuma sul cielo de Il giardino su Marte (2004), o ancora Passaggio alla luce (2009), l’opera presentata alla 53ma Biennale di Venezia, che si sviluppa su una vasta superficie, in cui, come tante bolle appena “soffiate”, le sfere e le mezze sfere, simboli della sapienza e delle sue alterne vicende, vivono l’ostinata e precaria esperienza dello spazio reale. L’estasi dei sensi si annida in una materia che svapora nell’evocazione. Ciò è paradossale come un cortocircuito in uno spazio privo di polarizzazioni. Ma proprio questa logica contraddetta rappresenta lo spirito di fondo del lavoro di Tadei. “Come ammettere ? si chiede in Figures (1966) Gérard Genette ? che la ‘verità profonda’ di una cosa […] possa rivelarsi in una figura che non ne discopre le proprietà, se non trasponendole, ossia alienandole?”. Appunto, come ammetterlo se non sottolineando l’indole irrazionale e spaesante della narrazione metaforica?

Marialuisa Tadei è un’artista che sa colpire il bersaglio dell’emozione legata all’essere e al suo divenire. Il suo navigare attraverso la metafora ? vorrei dire il suo raccontarla ? non si manifesta in maniera lineare, come un pensiero che scorre dalla sorgente alla foce, dalle premesse agli esiti. Lungo il percorso che collega rassomiglianze e differenze, cose che sono e cose a cui si allude, si manifestano i principi stessi dell’identificazione e al tempo stesso la scintilla della distanza e della differenza. Perciò la sua arte non vuole e non può essere “concettuale” e tautologica. Non c’è nelle sue forme alcuna referenzialità. E quanto al resto, cioè alla “somiglianza” delle forme con quelle che esistono nella realtà, ebbene, mi sembra opportuno testimoniare che l’indole metaforica del suo pensiero la porta a sottolineare non tanto ciò che assomiglia quanto ciò che alla somiglianza stessa resiste, irriducibile ai processi d’identità.

Pensiamo per un attimo a Marcel Proust, alla Venezia tratteggiata e alla sua Combray magistralmente e interiormente evocata, laddove l’essenza della Serenissima si concretizza nella resistenza che essa oppone in rapporto alla somiglianza sottesa. Proust scrive che vi assaporava “impressioni analoghe a quelle che tanto spesso, un tempo, avevo provato a Combray, ma trasposte in una tonalità affatto diversa e più ricca”. Va da sé che Venezia è un’altra Combray; ma è ancora più evidente che essa è una Combray “altra”, spudoratamente presente e “trasgressiva” rispetto alla Combray delle reminescenze, eppure anch’essa così evanescente nelle orientali preziosità acquatiche.

Da questo piano d’improvvisi slittamenti verso la realtà, e di altrettanto sorprendenti ascensioni verso la virtualità, Marialuisa Tadei si permette oggi di non navigare a “ventre basso”, che ormai è patrimonio, peraltro non so quanto esaltante, del secolo passato, ma di trasvolare invece a sguardo alto nella vicende della storia e nella poesia dei linguaggi: dalla sapienza di Lorenzetti a quella di Piero della Francesca e del Ghirlandaio. Non vi leggo principi di associazioni “giustificabili”, ma quel sonnambulismo poetico che contraddistingue da tempo la sua arte: così delicata eppure così sfrontata nel rivendicare la visionaria veggenza dell’anima.