Il luogo ignaro della scultura
Rocco Zani

Diplomatasi presso l’Accademia delle Belle Arti di Bologna, MariaLuisa Tadei ha poi conseguito la laurea in lettere e filosofia al Dams di Bologna e ha frequentato la Kunstakademy di Dusseldorf sotto la guida di Jannis Kounellis. Dal 1984 prende parte a prestigiose rassegne collettive, in Italia e all’estero.

Vanno ricordate le sue partecipazioni al Concorso di incisione Morandi (Bologna), alla Fortezza sperone (Genova), all’esposizione tenuta al Palazzo la Croisette (Cannes) , alla Rundang di Dusseldorf, alla rassegna Convergenze (Colonnella) a alla Città Museo 2 (Boville Enrica). Nel 1997 due sue personali a Roma e a Siena.Talune mostre, e da qui taluni incontri, sembrano fornire o sollecitare conoscenze fatali, squarci repentini all’interno di un sconfinamento assillato dall’omologazione visiva. Ecco allora che quello che appare come un percorso preliminarmente affollato di sequenze comunque “conosciute”, si trasforma di colpo in un contenitore di rare entità, di lucide intuizioni progressive.

La rassegna d’arte di Boville Ernica (La città del museo 2) è apparsa quest’anno in una peculiare veste di suggeritrice, affidando a taluni autori un ruolo dialettico di assoluto interesse. Maria Luisa Tadei è una presenza preziosa, perché preziosa è la sua scultura. Questo banale sillogismo euritmico, che sembra deviare da un percorrimento specificatamente di lettura, cela in verità un accordo meticolosamente più profondo. Il gioco composto dalle parole rimanda, quasi fatalmente, all’approccio diretto, marcatamente visivo, con l’opera della Tadei. Come se un pendolo ipotetico, eppure ineluttabile, segnasse il tempo e il modo della sospensione. Ovvero, come se l’acciaio abbandonasse di colpo l’originario alveo formale e per flessioni naturali e immaginarie dirottasse in un orizzonte parallelo e gemellare, fatto di attese, di labili sostentamenti. Ecco allora che una scultura in apparenza “monolitica”, ovvero dominata dalla “fermezza” dell’acciaio, si risolve, nel disegno onirico della Tadei, in un’entità generosamente umorale, talvolta evanescente, finanche sonora. Immaginando dunque un moto perpetuo della forma, l’occhio interlocutore invade anch’esso spazialità altre, nicchie di sospesi possibilismi.

E l’opera appare compiuta laddove l’immaginario empie (anche) il confine sovrapposto, quel luogo ignaro che accoglie i rivoli delle nostre trasposizioni. Ma questo gioco binario (sostenuto dal confronto fra il reale e l’iperreale), pare oltremodo alimentato dalla Tadei attraverso un uso propedeutico, fisico ed estetico, dei materiali, quasi che la “desiderata precarietà” dell’equilibrio trovasse la sua peculiare assonanza nella mistura del ferro e della seta, della luce e dell’ombra, dal visibile all’invisibile. Riecco il pendolo ipotetico a scomporre e a ricomporre il tempo della forma. E da qui il senso profondo, rigoroso e meditato della “sospensione”. Tutto il lavoro della Tadei, inteso come sommatoria di accordi minuti della ricerca, sembra dunque confluire in quest’agora dimensionale in cui l’afflato, la trasparenza, la metafisica leggerezza trovano la loro ineluttabile memoria.

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